Audioguida del Museo Archeologico di Lanciano
Testi di Roberta Odoardi – archeologa, responsabile del museo
Voce narrante Eva Martelli – attrice e regista
Testi di Roberta Odoardi – archeologa, responsabile del museo
Voce narrante Eva Martelli – attrice e regista
Alle origini del gusto!!
Le più antiche presenze umane nel territorio di Lanciano risalgono al Neolitico (VI-V millennio a.C.), quando si attua quella grande rivoluzione economica e alimentare, definita dagli studiosi neolitizzazione: dalla domesticazione del maiale, della capra, della pecora e dei bovini alle prime forme di orzo, grano e farro, lenticchie e piselli.
Le migrazioni sono la componente fondamentale nella formazione della società europea. I dati archeologici e quelli genetici dimostrano, infatti, che i periodi di grandi trasformazioni economiche spesso corrispondono all’arrivo di nuove genti. È il caso di quanto accadde nell’area balcanica e adriatica 8000 anni fa, quando genti portatrici di grandi novità, come l’allevamento e l’agricoltura, giunsero dalla Mezzaluna Fertile in questi territori trasformando fatalmente i modi di vita delle comunità di cacciatori e raccoglitori che incontrarono sulla loro strada. Questi flussi migratori sembrano aver seguito due direzioni: una marittima, lungo le coste, ed una più interna.
E così assistiamo alla c.d. “neolitizzazione” dell’Europa, termine usato per indicare lo sviluppo lento ma progressivo, di elementi che portano all’adozione dell’agricoltura, sostituendo gradualmente l’economia predatoria del periodo precedente. Questo processo ha una durata complessiva che in alcune aree supera i 4000 anni, nel corso dei quali si verificarono cambiamenti che sono diversi da regione a regione e con essi varia anche la cronologia.
Grandi contenitori, tazze, pentole, macine in pietra per triturare il grano e strumenti in selce (raschiatoi, coltellini etc.) sono stati rinvenuti negli scavi condotti nel 1969 dal Prof. A. Geniola in loc. Marcianese (c.d. Villaggio Rossi) e nel villaggio di Fossacesia.
Diversi vasi sono caratterizzati da decorazione impressa, e per questo definiti c.d. “Ceramica impressa”, diffusa pressoché in tutto il territorio costiero dell’Adriatico orientale.
Le “impressioni” sul vaso erano ottenute con strumenti “naturali” come le stesse unghie (da qui la definizione di “decorazione ad unghiate”), il bordo di conchiglie impresso a zigzag (per questo definita “decorazione a roker”), punzoni semplici come punte di osso, legno o altro materiale.
Solitamente sono decori coprenti, che interessano tutta la superficie del vaso e spesso non mostrano alcuna particolare organizzazione; talvolta tuttavia sono presenti bande verticali, orizzontali o motivi a zig-zag.
La scelta di decorare (o meno) un recipiente era dipendente da diversi fattori: estetico, legato cioè alla volontà di rendere i recipienti più belli alla vista; pratico, per favorirne la presa o per aumentare l’impermeabilità delle superfici; simbolico, fungendo la decorazione, in assenza di scrittura, da strumento di comunicazione di messaggi legati all’identità culturale di appartenenza o all’espressione delle differenze.
Curiosità: Anche se nulla sappiamo sugli albori del sale, doveva già essere largamente usato nel periodo Neolitico per conservare le carni!
Collane e bracciali in perle di pasta vitrea e di ambra legate tra loro da una trama di sottili fili di bronzo o altro materiale prezioso. Sono datate al VI-IV secolo a.C. e a guardarle si capisce perché erano particolarmente apprezzate dalle donne Frentane.
Solitamente perle in pasta vitrea e vaghi d’ambra erano utilizzati nella composizione di collane e bracciali di diverse fogge e misure, in associazione anche con altri materiali come bronzo e corallo; oppure erano usati da soli, infilati in orecchini, anelli, spilloni, fibule e bracciali.
L’ambra fu una sostanza tra le più amate in Italia nell’antichità ed è molto apprezzata ancora oggi. L’ambra ha da sempre attratto l’uomo per il suo colore e le sue molteplici virtù, sia terapeutiche che apotropaiche. Pur non trattandosi di una gemma, ma di una resina solidificata in base a un processo durato milioni di anni, era annoverata anticamente fra gli oggetti di lusso e aveva un valore talmente alto che il costo di una statuina che raffigurava un uomo superava perfino quello di più schiavi in buona salute.
Oltre al suo valore, anticamente le erano riconosciute virtù terapeutiche e analgesiche. Secondo il medico Ippocrate assunta come bevanda, aveva il potere di curare deliri e difficoltà urinarie, mentre ridotta in polvere e ingerita da sola o mescolata ad acqua e mastice, curava il mal di stomaco.
Fra i reperti rinvenuti ina sepoltura scoperta a San Giovanni In Venere spicca un piccolo vago in pasta vitrea configurata a testa umana.
Si tratta di un passante di una collana proveniente dall’Africa settentrionale, appartenuta ad una donna Frentana vissuta in un villaggio situato vicino all’abbazia di San Giovanni in Venere fra la fine del V-IV secolo a.C. La donna venne sepolta con ben 4 fibule/spille a fermare un capo di abbigliamento, 2 in bronzo e 2 in ferro, ed una collana con grande vago d’ambra al centro, proveniente dal nord Europa e appunto la testina di pasta vitrea.
Questi pendagli in pasta di vetro, estranei al costume locale e prodotti appunto nell’area fenicio-punica, dovevano essere indossati non solo per la loro bellezza dovuta all’effetto brillante del vetro dai vivaci colori, ma soprattutto come segno di appartenenza a un’élite che intratteneva rapporti di scambio con l’Oriente o perlomeno con le aristocrazie etrusche che avevano più facilmente accesso a quei prodotti. Avevano inoltre una funzione magico-apotropaica, dovevano cioè difendere per l’eternità l’anima della defunta dagli spiriti maligni.
Venivano realizzati da artigiani fenici che erano abilissimi a lavorare il vetro, producendo oggetti di altissima qualità esportati in tutto il Mediterraneo a partire dal VII-VI secolo a.C. Erano infatti largamente diffusi, oltre che in Egitto e in Tunisia, sulla fascia costiera siro-palestinese, in alcune zone dei Balcani e del mar Nero, in Sardegna, nella Sicilia punica e sulla costa tirrenica dell’Italia.
I diversi colori si ottenevano con l’aggiunta di proporzioni diverse di ossidi: il rame dava il blu e l’azzurro, il rame o il ferro determinavano il verde; il giallo, a seconda delle gradazioni, si otteneva dal ferro o dall’antimonio; con lo stagno si aveva il bianco, con il manganese il viola e ancora con il manganese, misto a ferro e rame, si otteneva il nero.
La presenza in territorio Frentano di questi monili di “importazione” ci raccontano di molteplici influenze culturali (apule, picene e campane) e di scambi e contatti lungo i percorsi adriatici in direzione del Piceno (Marche) e dell’Apulia (Puglia), e proprio lungo la Val di Sangro verso l’entroterra e l’area campana.
Fra gli oggetti rinvenuti nelle tombe dei Frentani a Lanciano (Loc. Gaeta) e nel territorio spiccano due splendidi cinturoni in bronzo.
Il cinturone bronzeo, da sempre associato all’equipaggiamento militare del guerriero, alla luce dei recenti studi sembra rivestire anche una valenza sociale rilevante all’interno delle comunità sannitiche e quindi Frentane.
Il fatto che diversi esemplari siano presenti all’interno di tombe non direttamente connotabili come appartenenti a membri dell’élite militare, come le sepolture infantili lascia supporre che nel corso del IV secolo a.C. il cinturone in cuoio, rivestito in lamina bronzea, passi da simbolo di status personale/famigliare a emblema del «diritto di cittadinanza».
L’ingresso del giovane sannita in seno alla comunità veniva infatti, probabilmente, sancito dall’assunzione del cinturone, in maniera del tutto analoga a quanto avveniva per il cittadino romano, che indossando la toga virilis abbandonava il mondo dell’infanzia per fare ingresso nella società degli adulti.
“Nulla dirai o farai a dispetto di Minerva” declamava Orazio.
Fra i reperti conservati in museo spicca un busto femminile, in posizione frontale con testa volta leggermente verso destra, che presenta sulla testa un diadema appoggiato sui capelli quasi invisibili e alla nuca resi in ciocche lunghe ed ondulate sino alle spalle. Quel che resta visibile del volto, che si presenta fortemente abraso, appare ovale e regolare con grandi occhi incavati, bocca piccola e chiusa.
La figura sembra indossare una semplice tunica senza maniche e spalline sottili, secondo una foggia che richiama quella dell’egida bipartita, di cuoio e a scaglie sul petto (una sorta di corta corazza).
Confronti per la resa della capigliatura possono proporsi con terrecotte italiche databili al IV-III sec. a.C., come un busto da Capua ed un’altra testa femminile idealizzata, mentre per il diadema si vedano una testa da Teano.
Alcuni fori sulla sommità del capo sembrano inoltre correlabili alla presenza di un altro elemento in materiale diverso di particolare nobiltà, probabilmente un elmo, che insieme alla foggia della tunica potrebbe indicare il possibile riconoscimento della figura come Minerva.
Atena o Pallade, che i Romani identificarono con Minerva, fu una tra le divinità più onorate dall’antichità. Nata dal capo di Zeus, vergine guerriera, è perciò rappresentata armata di elmo e lancia e munita dell’egida con la testa di Medusa.
Nei santuari dell’Italia centrale e della Magna Grecia sino al IV secolo a.C. la raffigurazione del busto risultava in genere riservato all’immagine della divinità, per poi passare a raffigurare fra IV e II sec. a.C. anche offerenti e devoti.
L’importante esemplare rappresenta la testimonianza di una dedica alla divinità venerata, dalla cui forte connotazione salutare testimoniano indubbiamente i numerosi votivi ad essa associati.
Ex voto suscepto, secondo la promessa fatta!
Dal Santuario antico ubicabile nei pressi della chiesa di S. Biagio provengono numerosi ex voto in terracotta. Fra il IV e II secolo a.C. si assiste alla diffusione dell’uso da parte dei fedeli di dedicare alle divinità oggetti votivi in terracotta, che comprendono statuine di offerenti e divinità, rappresentazioni di animali e frutti e soprattutto ex voto anatomici, strettamente legati alla sfera salutare e a quella riproduttiva.
Fra i votivi anatomici abbondano arti inferiori e piedi. L’offerta degli arti inferiori alla divinità avveniva non solo per richiedere guarigioni ma anche per invocare la protezione sulla persona, una protezione speciale per i viaggi, in particolare i pellegrinaggi, o anche le transumanze oltre che per i lavori dei campi che erano il principale sostentamento della maggior parte della popolazione.
Questi manufatti erano prodotti da maestranze apposite attraverso l’utilizzo di modelli e matrici, che potevano essere verosimilmente anche venduti. Tali oggetti venivano realizzati in atelier strettamente connessi o addirittura interni ai luoghi sacri, e quindi facilmente reperibili ed acquistabili da parte dei fedeli.
Alcuni studiosi ipotizzano che, seppur il santuario non ricavava alcun profitto dalla vendita di manufatti (ad esempio quelli in terracotta) prodotti all’interno o nei pressi delle aree sacre stesse, otteneva comunque in via indiretta un guadagno dalle offerte economiche o in “natura” che accompagnavano l’ex-voto. L’oggetto donato era probabilmente più una commemorazione tangibile dell’adempimento del voto che l’adempimento stesso e in numerosi casi, la solutio voti si faceva mediante un sacrificio, o almeno prevedeva offerte sacrificali come denaro.
“Ti è concesso fare qualunque cosa tu desideri, io, la lucerna complice della delizia del tuo letto d’amore, tacerò.” scriveva Marziale, Epigrammaton XIV, 39).
Fra le tante lucerne, le lampade ad olio, rinvenute negli scavi a Lanciano e nel territorio notiamo l’esemplare del tipo Firmalampen con il bollo SEXTI, ascrivibile al II secolo d.C., proveniente probabilmente da una fabbrica situata nel Nord Italia.
Il soggetto raffigurato all’interno del disco non è particolarmente originale: una maschera teatrale comica, tema che ebbe particolare fortuna nel mondo romano. La figurazione a rilievo veniva applicata dopo la fase della moderazione della lucerna ed ottenuta mediante l’impiego di appositi punzoni.
Nel mondo romano il fascino esercitato dagli spettacoli teatrali non rimase confinato nei teatri e nelle arene ma diventò un’iconografia presente nei vari manufatti di uso quotidiano.
Le rappresentazioni figurate gravitanti attorno al mondo del teatro e dei differenti Ludi e Circenses sono infatti una costante nei temi riprodotti sulle lucerne decorate e la loro massiva presenza è stata giustamente letta nel segno di uno sfruttamento di oggetti capillarmente diffusi come veicoli di un’ideologia e di un’estetica dominanti.
I giochi e gli spettacoli esercitavano un fortissimo potere attrattivo sugli osservatori, ed il riflesso di tale fascinazione non si limitava ad estrinsecarsi negli apparati decorativi degli edifici pubblici ma era destinato a diffondersi nei territori governati da Roma, veicolato appunto dalle raffigurazioni riprodotte su mosaici, affreschi, rilievi, ma anche riutilizzato come repertorio decorativo di oggetti di uso quotidiano, quali le lucerne, considerate veri e propri veicoli di trasmissione ideologica delle immagini.
Nella vetrina si conservano diverse matrici, ovvero stampi per realizzare la lucerna: “la lampada ad olio”, il principale strumento di illuminazione dell’antichità. Questi preziosi oggetti provengono dagli scavi condotti a San Vito Marina-Murata Bassa che hanno rivelato una parte di una grande villa di età romana situata sul mare. Questa parte della villa era destinata alla produzione delle lucerne e forse di altri manufatti in terracotta: oltre alle matrici sono stati infatti portati in luce ambienti per la lavorazione dell’argilla ed una fornace per la cottura dei manufatti.
A partire dall’età romana la produzione di lucerne divenne quasi “industriale”, concentrata in grandi aziende, che apponevano il loro marchio (il nome del proprietario o un simbolo impresso, graffito o a rilievo) sulla base della lucerna. Si utilizzavano due stampi: uno per realizzare il serbatoio (il contenitore del combustibile, olio, sego, o altro), di forma cilindrica ed uno per la parte superiore del serbatoio chiamata disco, che era munita di foro per lo stoppino .
Le varie fabbriche si contendevano il mercato e avevano una diffusa esportazione dalle aree di produzione a quelle di consumo. Utilizzando gli stampi si arrivò quindi ad una produzione veloce e seriale … ma portò anche al diffondersi del fenomeno della “falsificazione”: piccoli e medi laboratori artigianali iniziarono a ricavare le matrici dalle lucerne originali per produrre imitazioni locali spesso di qualità molto scadente, ma evidentemente di basso costo.
E forse anche a San Vito Marina gli artigiani locali iniziarono una produzione di lucerne partendo dagli originali delle “grandi fabbriche”.
Nel nostro Museo si conservano diverse monete provenienti dalla villa di Murata Bassa a San Vito marina riferibili in particolare alla fine del III secolo d.C./inizi IV secolo d.C., fase storica molto travagliata per l’Impero. A causa dell’inflazione che afflisse l’economia, si ebbe una forte perdita del potere di acquisto della moneta e il conseguente rialzo dei prezzi.
Un periodo inoltre di grande trasformazione tipologica e contenutistica della moneta, dominata dalla figura dell’imperatore, ritratto con un tipo di effige che risalti soprattutto la grandezza e la forza dell’imperatore stesso, espresse dall’ingrandimento delle proporzioni del ritratto e dalla fissità dello sguardo.
La moneta è quel reperto prezioso che ci dà informazioni complesse che riguardano la produzione, distribuzione e circolazione e l’economia di un dato momento storico.
La moneta era emessa dalla Stato, che per trasformare un quantitativo di metallo in moneta, vi imprimeva un ‘segno’ (‘tipo’). Quindi soltanto l’immagine trasforma un peso di metallo in una moneta (metallo coniato), il cui potere d’acquisto è garantito dallo Stato.
La scelta delle immagini da imprimere sui tondelli non poteva quindi essere causale o lasciata all’estro dell’incisore di turno, dal momento che erano ‘segni’ che comunicavano idee e messaggi, prodotto della ‘propaganda’ del tempo e comunicava in modo diretto a differenti livelli sociali e con diverse modalità a seconda delle epoche e delle aree d’interesse.
Design dall’oriente
Con la riconquista bizantina della città nel 538 durante la Guerra Gotica, la mensa e le cucine delle famiglie di Anxanum si arricchiscono di vasellame di importazione proveniente dal Mediterraneo orientale e dall’Africa.
In vari punti della città sono stati rinvenuti frammenti di una classe ceramica chiamata “Ceramica dipinta a bande tipo Crecchio”, dal nome del non lontano abitato bizantino in loc. Vassarella di Crecchio in cui se ne era rinvenuta nel 1991 una grande quantità, significativa testimonianza della presenza bizantina in città.
L’elemento distintivo è rappresentato da un’articolata decorazione dipinta confrontabile con produzioni di area egiziana databili fra VI e VIII secolo d.C. A partire dalla metà del VI secolo vanno infatti facendosi sempre più consistenti nelle aree adriatiche della regione gli influssi e le importazioni dall’Oriente (l’ampia fascia compresa fra Egitto e Siria-Palestina), che si traducono prima nell’importazione di manufatti e poi probabilmente anche di artigiani.
Brocche e anfore per la conservazione ed il consumo di liquidi: alcuni esemplari rinvenuti a Crecchio conservano ancora resti di mosto pietrificato, a testimoniare il contenuto originario. Doveva trattarsi di un servizio di vasi di pregio, riservato alle classi elevate della società, che diventano anche significativamente oggetto di corredo delle sepolture ascrivibili a questa fase.
“Un’eleganza semplice ci piace: ma non siano senza stile le chiome, cui dà o toglie grazia la mano in moto. Non c’è un modo soltanto di pettinarsi e quello adatto a lei ciascuna scelga consultando prima lo specchio”. (Ovidio, Ars Amatoria)
I romani conoscevano tre tipologie differenti di aghi crinali: l’acus crinalis o comatoria, il più comune, era utilizzato per fissare, sostenere ed elevare i capelli nelle varie acconciature; l’acus discriminalis o discerniculum aveva la funzione di separare le ciocche durante le operazioni di pettinatura; un terzo tipo, di cui non è attestata una terminologia specifica, serviva per applicare unguenti e prodotti cosmetici.
Gli aghi crinali si diffondono in modo capillare nel mondo romano proprio in età imperiale, ed in particolare nelle fasi tarde, quando l’acconciatura delle donne diviene più elaborata, caratterizzata da alti diademi di capelli, anche posticci, che si elevano sopra la fronte (le nostre extension!).
Anche se nel mondo romano esistevano aghi crinali preziosi, realizzati in avorio, bronzo, argento e oro, la maggior parte di essi erano foggiati in osso.
Gli esemplari conservati nel museo di Lanciano, con testa cilindrica o tonda, appartengono al tipo utilizzato per fissare e sostenere i capelli. Alcuni aghi crinali di dimensioni ridotte, come il nostro esemplare in bronzo, erano celati intenzionalmente nell’acconciatura.
Design altomedievale (VIII-X secolo d.C.)
Nei c.d. secoli bui il repertorio di forme delle botteghe di vasai locali è decisamente ridotto e comprende l’olla (pentola) ed il testo da pane.
L’olla, forma più attestata, era utilizzata per la cottura degli alimenti in acqua, in particolare per la realizzazione di zuppe e minestre. E’ significativamente quasi assente il tegame o la casseruola, contenitore generalmente utilizzato per gli arrosti di carne, evidentemente alimento scarsamente utilizzato in questo periodo.
Le ricerche documentano infatti un’economia agricola basata su coltivazioni cerealicole (frumento e orzo) e leguminose (prevalentemente lenticchie, piselli e veccia). Importante sembra essere stato il ruolo dell’allevamento ovicaprino e, secondariamente, suino, mentre è bassa la percentuale di attestazione dei bovini da mettere in relazione ad un loro impiego in attività agricole.
Abbiamo anche resti del testo da pane, piccolo forno per cuocere il pane su un piano di cottura a terra, l’equivalente del nostro “lu coppe”: si trattava infatti di un piccolo fornetto che veniva posto rovesciato accanto al fuoco, al di sotto del quale venivano posti generalmente impasti a base di farine, e che veniva poi ricoperto con la brace.
Il manufatto si prestava ad un sistema di cottura particolarmente economico, che consentiva l’utilizzo di quantità limitate di legna. Secondo l’ipotesi più accreditata l’impasto da cuocere era posto al di sotto della “campana”, mentre il listello pronunciato di cui questa era dotata all’esterno serviva a contenere la brace ardente a contatto con il testo.
La produzione di questi contenitori diventa importante fra il VI-VIII secolo quando probabilmente si afferma un’economia di tipo “famigliare”, e una panificazione domestica, anche in conseguenza della “ruralizzazione” dello spazio urbano, riscontrabile in numerose città.
Dai contesti altomedievale provengono anche pochi frammenti in pietra ollare, importati dall’area alpina. Questi contenitori erano particolarmente adatti alla cottura del cibo dal momento che si tratta di una pietra che si scalda lentamente e raggiunta la temperatura desiderata continua a tenerla costante: è infatti adatta a preparazioni di piatti che richiedono lunghe cotture (stufati, risotti, sughi, zuppe).
Siamo nel Medioevo e cambiano i gusti!
Brocche, ciotole e boccali che ci mettono in contatto con le storie di artigiani e vasai lancianesi attivi quasi mille anni fa.
La scoperta di un cospicuo numero di esemplari non ricoperti con lo smalto (biscotti) e scarti di produzione relativi alle varie tipologie prodotte, testimoniano infatti dell’esistenza a Lanciano di botteghe locali, particolarmente organizzate, che producevano vasi in Maiolica Arcaica a larga diffusione, a scala quanto meno regionale.
E non possiamo non ricordare che l’Antinori scriveva” “nei tempi di Ferdinando il Cattolico fioriva in Lanciano Maestro Renzo Pittore insigne e perito nel formare i vasi figulini, che egli per primo adornò di pitture e ridusse a nuove forme”.
Fra la fine del XII ed il XIII secolo si assiste in Italia ad un “trasferimento di tecnologie” che portarono ad una vera e propria rivoluzione nei modi di fare ceramica. Vengono acquisite due nuove tecniche fondamentali che determinano il cambio di produzioni: La smaltatura stannifera e l’ingobbiatura. Questa rivoluzione tecnologica e di gusto si può spiegare forse con il verificarsi di una situazione favorevole che portò allo spostamento di vasai con bagagli conoscitivi diversi oppure ad una apertura di contatti nuovi rispetto al passato.
A tal proposito si ricordi che nel XIII secolo si era ormai nuovamente consolidata quella rete di tratturi che portavano le greggi dell’intera regione sino alla Puglia settentrionale, la “Via della Lana”, itinerario privilegiato anche per altri commerci fra cui la diffusione prima di prodotti ceramici dalla Puglia, e poi di elementi morfologici e decorativi che venivano ad influenzare nuove produzioni di ambito locale, fra cui appunto proprio l’importante produzione attestata a Lanciano.